Presi il barcone che faceva la valle dell'Arno all'imbarcadero vicino alla vasca dei Miracoli, alle otto di sabato mattina. Era un viaggio lungo, e lento, il barcone aveva un motore elettrico con celle a combustibile, ma andare con il mio topo sarebbe costato troppo di benzina, e io avevo sempre uno stipendio da dottorando (anche se non pagavo più l'affitto). Seduto sul fondo del barcone, i sedili erano tutti occupati, guardai sfilare davanti a me i Monti Pisani, si vedeva la strada tutta curve che da Calci saliva fino al passo, poi ridiscendeva a Buti. Mi ricordava gli interminabili viaggi in corriera di quando ero dall'università, al primo anno tornavo a casa tutti i weekend, poi -chissà come mai- avevo cominciato a farlo sempre più di rado, finché alla fine del terzo anno avevo smesso del tutto, questo sapevo perché.
Il barcone oltrepassò lo scoglio di Caprona, passando al largo del piccolo porto per evitare le secche, e dopo un'altra ora si inoltrò tra i canneti dove una volta sorgeva Bientina, soltanto un campanile spuntava sopra le acque; finalmente, era quasi mezzogiorno, attraccò al pontile di Cascine di Buti. La strada per Buti era un po' più di due chilometri, in alcuni tratti in ripida salita; mi voltai spesso a guardare la valle dell'Arno, con le sue acque limacciose, le sue paludi ingombre di canne.
La piazza di Buti era come la ricordavo; i vecchi del paese, come mio nonno, dicevano che era rimasta pressappoco la stessa dei tempi prima dello sfondamento della diga. Ma la vita non era rimasta la stessa: dopo che le zone industriali della pianura furono distrutte rimase ben poco lavoro, alcuni erano tornati ad un'agricoltura di sussistenza, compresa la raccolta di castagne e di legna nei boschi. Non è che io, arrivando al paese, pensassi a questo. Però sulla piazza c'erano i miei amici d'infanzia, che passavano la vita ad aspettare un lavoro. Io ero fortunato ad essere riuscito ad andarmene, grazie al posto in collegio a Calci; me lo ero meritato con i miei ottimi voti.
Eppure si stava bene al paese, avevo tanti amici che oramai avevo un po' perduto di vista. Buti era un piccolo paese, ma stranamente ricco di iniziative: mi ricordavo il piccolo teatro, specialmente una serata, facevano Shakespeare, o forse era ``La piccola città'', capitò seduta accanto a me per caso, o così mi aveva fatto credere. Non era certo la prima volta che la vedevo, in paese ci si conosceva tutti, ma solo quella sera la guardai davvero, e la toccai, solo sul braccio, si capisce.
Scacciati i ricordi, proseguii di buon passo verso la parte alta del paese; passai davanti al cybercaffé dove ci si trovava a discutere le avventure online del sabato sera, ma non mi fermai, non avevo voglia di ritrovare altri vecchi amici. La nostra stradina non era cambiata affatto: c'erano sempre gli stessi fiori alle finestre, sui muri le stesse piastrelle dipinte. Mio padre venne ad aprirmi molto in fretta quando suonai, come se fosse stato proprio dietro la porta.
- Entra... mi fa piacere che tu sia venuto.
- Come stai? E Giuliana non c'è?
- Tua sorella è andata a stare qualche tempo a Firenze da degli amici.
Non era una grande spiegazione; mio padre era rimasto solo, questo era il fatto. Dovevo cercare di parlargli... in fondo ero venuto per parlare con lui; o forse speravo di trovare qualcun altro? Mi spiaceva che non ci fosse mia sorella, ma non è che ci fossimo mai cercati negli ultimi due anni.
Più tardi proposi a mio padre di andare a passeggio nei boschi, dove andavamo a raccogliere castagne con il nonno. Parlavamo di cose poco importanti, pettegolezzi di paese, lui non mi chiese come andava il mio lavoro, io non gli chiesi se era sempre solo o si era trovato un'altra donna, a un figlio non si dice. In fondo io con mio padre ero riuscito a parlare davvero non più di tre volte in vita mia. Una volta era tornando dal funerale di mia madre. Aveva detto, rivolgendosi a me ma anche a mia sorella, che però non c'era:
- Mi dispiace che pensiate che non l'ho amata.
Non che io fossi stato capace di rispondergli. Un'altra volta era stato quando stavo per partire per l'Università. Ma ne era passato del tempo.
Ci inoltravamo nei boschi lungo la strada che saliva al Monte Serra, la stessa che prendeva la corriera per Calci, mi faceva tornare a galla tanti ricordi. C'era un tornante, con l'asfalto reso infido dalle foglie che cadono dagli alberi che coprono quasi del tutto la strada; anzi in autunno c'erano anche i ricci delle castagne; ci saranno ancora, credo.
- Ti ricordi quando io e il nonno siamo caduti con la moto?
- Vieni - mio padre era sempre stato di poche parole, ma invecchiando era diventato veramente laconico.
Mi precedette per un po' lungo la strada, finché capii dove voleva portarmi. C'era una radura, e c'era ancora il capanno mezzo nascosto tra gli arbusti. La porta si apriva con fatica, e il telo che la copriva era ammuffito, ma la motocicletta del nonno era ancora lì. Sul fianco si leggeva ancora la scritta argento su fondo nero: Suzuzki. Già quando io ero piccolo era un lusso proibito, mio nonno non pagava la quota fissa della carbon tax, anzi la sua moto ufficialmente era stata smantellata anni prima, e non aveva il permesso di circolare. Ma sulla strada del Monte Serra non si incontrava mai la polizia. Ora era un cimelio, un ricordo, di quelle corse pazze sui tornanti, il nonno mi portava sempre dietro, fino alla volta che finimmo per terra. Tornammo a casa con tutti i vestiti strappati, come si arrabbiò la mamma!
La sera, dopo la cena che mio padre aveva cucinato con quello che aveva in casa, ma era buona, gli proposi di andare assieme in piazza, ma lui rifiutò, mi disse di andare da solo, era stanco.
Avviandomi verso la piazza me la sentivo, lo stavo aspettando, eppure quando la incontrai feci un sobbalzo. In due anni Alberta era molto cambiata, il viso era rimasto lo stesso, gli occhi avevano sempre quella vivacità sua speciale, però il suo corpo era molto più ingombrante. Spingeva una carrozzina con un marmocchio che si succhiava il dito pollice con grande soddisfazione. Molti anni prima, quando io ero partito dal paese per andare a Calci, ci eravamo lasciati dicendo che saremmo restati buoni amici. Era una bugia, ma forse in buona fede, almeno da parte sua.
- Alberto! Che piacere mi fa di vederti! Come stai? Sei tornato?
- Sono solo venuto per il weekend... a trovare la mia famiglia.
Restammo un poco a guardarci senza riuscire a mettere insieme una conversazione. Non mi ricordo le cose che ci dicemmo, salvo una.
- Ti ricordi di quela sera a teatro, quando capitammo seduti accanto? Che cosa c'era? Giulio Cesare, oppure ``La piccola città''?
- Amleto, stupido. Stai già perdendo la memoria?
Continuammo a passeggiare lungo la strada, suo figlio mi guardava, era veramente un bambino buono. Alla fine le presi la mano tra le mie, lei la ritirò prima che potessi baciarla. Scappai a casa e andai a letto presto.
La domenica mattina passai sotto il balcone di casa sua. Una cosa veramente stupida, per fortuna lei non si affacciò. Feci una lunga passeggiata per il paese, passai anche davanti al teatro: la sera davano ``La piccola città''. Il pomeriggio presi di nuovo il barcone al pontile di Cascine di Buti. Verso sera la valle dell'Arno era molto più bella, forse perché gli occhi erano un po' abbagliati dal sole che ci tramontava in faccia, e non si vedeva nulla del fango, dei labirinti di canne, delle rovine di tetti che sfioravano la superficie dell'acqua; si vedeva solo l'arancione del cielo, e la palla rossa del sole che cambia forma schiacciandosi sull'orizzonte. Più tardi Venere, la stella della sera, era la prima luce in cielo, tanto luminosa da lasciare una scia di riflessi nell'acqua tra il Battistero e il Duomo, quando scendevo al pontile `Pisa Miracoli'.
Andrea Milani 2011-10-11